Babbo Natale e la Psicologia

Fino a che età è normale che un bambino creda a Babbo Natale? È bene incoraggiare la finzione e mettere in piedi ogni anno la messinscena del magico arrivo dei regali, o sarebbe meglio soprassedere? E come gestire la scoperta che il vecchio barbuto di rosso vestito esiste solo nella fantasia? 

Non sono pochi i genitori che si pongono queste domande, mentre preparano i pacchetti richiesti nella famosa lettera indirizzata al Polo Nord. E non sono pochi quelli che entrando nel mio studio chiedono di essere indirizzati su come trattare il mondo magico di Babbo Natale con i propri figli .

Premesso, che in merito esistono delle ricerche sui benefici del credere a Babbo Natale. Va anche detto, negli ultimi decenni la figura di Babbo Natale è ben rappresenta dalla società dei consumi in cui viviamo. In questo contesto societario il periodo natalizio è diventato sempre più il momento maggiormente redditizio per le vendite permettendo così la crescita della figura di Babbo Natale .

Natale è una festa complessa, in cui convivono sentimenti diversi. Accanto a quelli religiosi, vi sono infatti sentimenti familiari, di rassicurazione, speranza e solidarietà. In questa complessità, i bambini hanno un ruolo centrale, poiché rappresentano il cuore degli affetti familiari e della fiducia nel futuro. La società dei consumi ne ha fatto, quindi, i destinatari privilegiati dei doni natalizi, testimonianza di affetto e legame, e Babbo Natale è diventato il rappresentante principale di questa operazione. 

Per le loro caratteristiche psicologiche, i bambini piccoli  – grosso modo fino a sei anni – sono sensibili a questa figura e aderiscono facilmente alla credenza; essi infatti sono contraddistinti da fantasia e da sensibilità a figure immaginarie, che impersonano desideri e sentimenti positivi.

Che fare, allora come genitori

A mio parere la prima cosa dovrebbe essere interrogarsi su qual è il significato che si intende dare a questa festa. Non farsi travolgere dalle abitudini sociali ma sviluppare una maggiore consapevolezza sui propri valori è il primo indispensabile passo. Da questa  riflessione discenderà il peso maggiore o minore che si vorrà dare a Babbo Natale, e il ruolo che si attribuirà non solo a lui ma, più in generale, ai regali natalizi dei bambini.

Pare innanzitutto che non ci sia pericolo di farli diventare dei creduloni. Al contrario di quanto si pensava fino a non molto tempo fa, perfino i bambini molto piccoli sono ben capaci di distinguere tra immaginazione e realtà. 

In effetti, quando il bambino riflette su come il vecchio possa in una sola notte consegnare i regali in tutto il mondo o scendere con il suo pancione dalla stretta cappa del camino, mette in atto lo stesso tipo di immaginazione richiesta per trovare la soluzione di un problema scientifico.

Anche senza pensare di poter incoraggiare future carriere da inventori, la maggior parte degli esperti concorda sul fatto che credere a Babbo Natale, come a molte altre creature fantastiche, sia una fase normale dello sviluppo cognitivo. In fin dei conti, quella su Babbo Natale non è una bugia vera e propria, ma una sorta di esortazione a partecipare a una storia di fantasia.

Per molti genitori, eccessivamente protettivi nei confronti dei figli,  la scoperta della verità potrebbe provocare traumi non da poco e  decidono di non fargli vivere la fantasia di Babbo Natale, privandoli così di un’esperienza unica nel so genere al livello emozionale. Esperienza, che se proviamo a ricordare da adulti è sempre associata al proprio mondo interiore in maniera piacevole. pertanto possiamo considerare il pericolo inestistente.

A questo punto viene da chiedermi: “ quanta fatica fanno i genitori oggi,  nell’avvicinarsi all’emotività dei figli e quanto è più semplice eliminare l’immaginazione e la fantasia adultizzando i propri piccoli e privandoli delle  tappe evolutive importanti?” 

La ricerca in merito ai traumi nel credere a Babbo Natale afferma di aver trovato un solo caso di trauma significativo causato dalla scoperta della non-esistenza di Babbo Natale: a una bambina, il padre aveva a un certo punto semplicemente detto che Babbo Natale non c’era più perché aveva avuto un infarto ed era morto.

Fino a cinque anni, di solito i bambini credono incondizionatamente a Babbo Natale. A sette sono in molti a dubitare, a nove non ci crede quasi più nessuno.

Al contrario di quanto si tende a pensare, la rivelazione non arriva in modo improvviso. Anche quel che ha l’apparenza di un drammatico incidente, per esempio papà o mamma colti nottetempo in flagranza di reato a piazzare i regali sotto l’albero, di solito è solo la conferma di un sospetto precedente. Se il bambino non è ancora arrivato all’età giusta, è possibile che neppure un’evidenza del genere faccia crollare la sua fede.

Pertanto che sia per “dissonanza” (si riconosce l’elastico che regge la barba finta, o le scarpe del papà travestito da Babbo Natale), per i dubbi instillati dai compagni di scuola più grandi che ci sono già arrivati, o perché il mito a un certo punto presenta troppe incoerenze, per ogni bambino a un certo punto viene il momento di fare due più due.

In ogni caso è opportuno trattare questa figura con leggerezza, cioè come una rappresentazione fantastica, circondata da mistero, senza commistioni e confusioni con la realtà. Con questo atteggiamento, il bambino sarà facilitato nel rendersi conto gradualmente di ciò che si tratta, senza provare sentimenti di delusione o inganno.

Poiché l’adesione a questa raffigurazione mitica è frutto di un certo modo di ragionare della mente infantile, sostenuto per fini propri dalla nostra cultura, essa è naturalmente destinata a cadere, per trasformarsi al più in una consuetudine sociale. In ogni caso, mano a mano che il bambino cresce, le sue domande dovranno sempre trovare una risposta sincera: non solo perché il bambino ha sempre diritto alla verità, ma anche perché queste domande stanno a indicare che egli comincia a riflettere in modo critico su questa credenza.

Quando si colgono segnali che l’ora è giunta, meglio secondo non fare “rivelazioni” (a meno di non dover rispondere a domanda diretta) ma lasciare che la verità venga scoperta gradualmente dai bambini stessi … magari smettendo di camuffare la calligrafia sui biglietti lasciati da Babbo Natale, o seminando qualche indizio utile alla loro indagine. Se ci arrivano da soli, sarà per loro un piccolo traguardo, un benvenuto nel mondo dei grandi. E potranno sempre consolarsi dando una mano ad allestire la messa in scena di Babbo Natale per fratelli e sorelle più piccoli. 

“«In verità vi dico: se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.” Matteo 18, 3

…Sereno Natale a tutti !

                                                                           Psicologa Psicoterapeuta

                                                                           Filardi Rosita     

Bibliografia 

Paul L. Harris, O. Albanese, C. Marchetti “L’immaginazione nel bambino” 2008 Raffaello Cortina Editore

Camaioni, Di Blasio “Psicologia dello sviluppo” 2007, ed. il Mulino 

Rivista,  Psicologia Contemporanea

Mensile, Focus 2016

Alfio e Michele Maggiolini “La vera storia di Babbo Natale” 2011, Raffaello Cortina Editore

Quando il GIOCO si fa…SERIO!

La metodologia della formazione esperienziale.

 

Nel mondo degli adulti si associa spesso la parola “gioco” a qualcosa di distante, perché appartenente al mondo dell’infanzia, o a qualcosa di patologico se pensiamo al gioco d’azzardo. 

Ma che cosa significa realmente gioco? Per rispondere a questa domanda ci vengono in aiuto gli studi classici. Se consideriamo, infatti, la parola latina “ludus” e ci focalizziamo sulle sfumature di significato, vediamo che ludus significa gioco, svago, ma significa anche palestra, scuola. Giocare nel mondo degli adulti, infatti, significa formarsi e sviluppare quelle competenze trasversali che difficilmente si apprendono dai libri o dai contesti di apprendimento tradizionale.

Questa tipologia di formazione prende il nome di “formazione esperienziale”. La formazione esperienziale è caratterizzata proprio dai giochi indoor e outdoor e dalle “small tecniques”. Le small tecniques sono “una serie di attività di durata abbastanza breve(…) piuttosto strutturate e con regole definite, realizzabili anche indoor e che non richiedono l’utilizzo di attrezzature complesse” (Bettinelli, 2008). Sono un ottimo strumento di formazione esperienziale per condurre gli adulti fuori dalla zona di comfort e facilitare il cambiamento inteso come apprendimento e sviluppo di competenze trasversali. 

Dal punto di vista teorico-metodologico, la formazione esperienziale è stata ampiamente studiata dallo psicologo sociale statunitense Kolb, il qualche ci fornisce uno schema da seguire e da considerare quando stiamo svolgendo sessioni formative a carattere esperienziale, il cosiddetto CICLO DI KOLB:

Si parte dall’esperienza di gioco, si passa poi alla fase di osservazione riflessiva (i partecipanti si interrogano sull’esperienza ludica vissuta), segue la fase di concettualizzazione astratta (cosa ho realmente appreso dall’esperienza ludica?) e si termina con la sperimentazione (ciò che ho appreso attraverso la metafora del gioco, lo trasferisco nei contesti di vita reale).

Per sintetizzare, le caratteristiche della formazione esperienziale sono:

  • Le situazioni vissute negli ambienti formativi (come i giochi) sono “metafore” che consentono di scoprire fenomeni e processi di vita reale.
  • I partecipanti nei processi formativi esperienziali possono provare, sbagliare, “rischiare”, perché è proprio dagli errori che si genera apprendimento.
  • I partecipanti hanno un ruolo attivo ed elevato coinvolgimento emotivo.
  • Si tratta di una metodologia che non accetta un apprendimento statico del tipo “dai docenti ai partecipanti”, ma enfatizza un processo di apprendimento dinamico, in cui tutti sono coinvolti e possono generare stimoli formativi.

Per concludere, l’utilizzo dei LEGO, dello SPORT, dei GIOCHI DI RUOLO per la formazione degli adulti, sono validi stimoli per potenziare le competenze trasversali sempre più importanti nei contesti di vita lavorativa ed extra-lavorativa.

Giocare seriamente nel mondo degli adulti si può, genera apprendimento e ci ricorda la vera natura del gioco: sano divertimento e ricchezza formativa.

Il bambino che non gioca non è un bambino, ma l’adulto che non gioca ha perso per sempre il bambino che ha dentro di sé. – Pablo Neruda

Outplacement. Quando la perdita del lavoro si traduce in nuove opportunità.

L’Outplacement è un servizio a supporto della ricollocazione professionale. Si tratta di un supporto psicologico, informativo, formativo e logistico che l’azienda datrice di lavoro offre a un dipendente in uscita, attraverso la consulenza di professionisti esperti specializzati che facilitano il percorso di costruzione di una nuova identità professionale.

La disoccupazione può avere effetti negativi sulla persona: oltre a sintomi come ansia, depressione, insoddisfazione, si riscontrano spesso condotte a rischio per la salute (ad esempio un aumento di consumo di alcool, tabacco e droghe; condotte criminali o devianti; condotte auto lesive, ecc.) e modifiche ad attività del tempo libero (la persona si concentra maggiormente su attività private e dedica minor tempo ad attività sociali, disinteressandosi della vita pubblica). Tutto dipende dalla valutazione che la persona dà del suo stato di disoccupazione: come viene percepita la disoccupazione? negativa? quanto negativa? In ogni caso, la perdita del lavoro, così come qualsiasi perdita nella vita, richiede uno sforzo e un periodo di “elaborazione del lutto”, più o meno impegnativo, per persone diverse. Essere affiancati da esperti durante questa elaborazione, aiuta ad attivare le risorse necessarie per navigare nel mare magnum del mercato del lavoro attuale e raggiungere la meta con maggiori livelli di soddisfazione, efficienza e resilienza.

Di fronte al trauma della perdita del lavoro,quindi, qual è il compito dello psicologo e degli esperti in materia? Il supporto psicologico riveste un’importanza notevole e ha tendenzialmente i seguenti obiettivi:

affiancare l’individuo nella costruzione di una nuova immagine di sé;
“accompagnare la persona” nella scoperta delle risorse dimenticate o, fino a quel momento, poco valorizzate;
guidare la persona verso una riflessione sulla qualità della vita nella sua globalità, prestando una particolare attenzione sul contesto familiare e sociale nel quale l’individuo è inserito e dal quale la persona può trarre supporto.

Riflettere su se stesso, sulle proprie capacità, sulle proprie attitudini, non è un percorso facile, soprattutto per le persone che hanno raggiunto un’età vicina alla metà della vita. Rivedersi da prospettive diverse è uno sforzo che non tutti sono in grado di compiere senza il supporto di strumenti oggettivi o la sollecitazione di altri che dall’esterno guidano in questo percorso di “scoperta”.

Essere supportati attraverso un percorso di outplacement è un’opportunità, un cammino che consente di “re-inventarsi”, ripartire più carichi e con una marcia in più nel mondo del lavoro. Un percorso di outplacement, oltre che un momento di supporto e di ricostruzione di una nuova immagine del sé, è un momento di ricerca. Le persone impegnate in un percorso di ricollocazione professionale, infatti, acquisiscono un bagaglio di informazioni:

informazioni sulle professioni e sui cambiamenti che le professioni affrontano grazie allo sviluppo tecnologico e industriale;
informazioni sul mercato del lavoro e sulle modalità di creazione dei network lavorativi;
informazioni sulle aziende.

La perdita del lavoro, quindi, se affrontata con una giusta dose di coraggio e resilienza e con il supporto adeguato si traduce in ricchezza e in nuove opportunità, perchè “da soli possiamo fare così poco; insieme possiamo fare così tanto.”

ORIENTAMENTO E PROGETTAZIONE PROFESSIONALE: i falsi miti e gli stereotipi di genere in merito alle scelte scolastico-professionali.

Il mondo del lavoro è stato segnato da profondi cambiamenti sia dal punto di vista economico, che dal punto di vista socio-culturale.

Si è passati da un paradigma focalizzato sul “posto fisso” e sulla stabilità dei processi a un paradigma che lascia intravedere una vita con più professioni e una logica di apprendimento permanente.

La parola-chiave che segna la società attuale è “disoccupazione”. Si parla di disoccupazione utilizzando il sostantivo singolare e non ci accorgiamo che ci troviamo di fronte a un bias linguistico che ci fa dimenticare le diverse sfumature di questo fenomeno.

Abbiamo, infatti, diverse tipologie di disoccupazione, tra cui:

-La disoccupazione frizionale, una forma di disoccupazione che interessa le persone alla ricerca del primo impiego o che stanno cambiando lavoro. Deriva dall’asimmetria presente tra “chi cerca lavoro” e “cosa offre il mercato del lavoro”.

-La disoccupazione volontariariguarda le persone che non cercano lavoro per scelta personale, perché in attesa di un’occupazione perfettamente coerente con il profilo professionale.

-La disoccupazione involontaria, deriva dalla domanda insufficiente da parte delle imprese o dalla crisi del mercato del lavoro.

Tra i protagonisti della moderna disoccupazione emergono i “NEET”, giovani definiti spesso come “giovani della zona grigia”, sono sia giovani che vorrebbero un impiego ma non lo trovano, sia giovani che abbandonano la scuola senza trovare lavoro. Si tratta di un fenomeno complesso per la molteplicità di motivazioni che possono condurre le nuove generazioni verso questa “zona grigia”. I neet sono definiti anche come “giovani dal futuro sospeso o interrotto”, ma semplicemente perché non sono in grado di individuarlo o progettarlo.

Gli psicologi e gli esperti in politiche attive del lavoro devono supportare i neet e i giovani nell’individuazione e progettazione del loro futuro, al fine di condurli fuori dalla zona grigia e per far vedere loro la possibilità di configurare nuovi scenari possibili in cui loro sono i protagonisti e artefici della loro vita.

Abbattere i muri tra giovani e lavoro deve diventare la priorità dell’Agenda del nostro paese. Come? Sicuramente l’orientamento riveste un ruolo fondamentale, se caratterizzato da “buone” pratiche fondate scientificamente e non da “falsi miti”.

Orientare, infatti, non significa consigliare o suggerire, non significa partecipare semplicemente a fiere, mostre e saloni, ma l’orientamento “riguarda l’erogazione di aiuti finalizzati a supportare la persona nelle operazioni di raccolta, processazione ed uso delle informazioni di tipo formativo e professionale e nella pianificazione delle sue decisioni in merito puntando, nel limite del possibile, all’incremento delle abilità in tutto ciò implicate ” (Soresi, 2000). Dal punto di vista pratico, quindi, l’orientamento e gli interventi di progettazione professionale devono: instillare speranza, fiducia e ottimismo, favorire la prontezza e la career adaptability, incentivare l’apertura mentale e ridurre la propensione ad aderire a visioni stereotipate. Quest’ultimo aspetto merita una notevole attenzione nell’ambito dei processi di orientamento, in quanto aderire a visioni professionali stereotipate compromette le scelte scolastico-professionali degli adolescenti, scoraggiandoli ad intraprendere percorsi formativi semplicemente sulla base del genere sessuale.

Gli stereotipi professionali generano falsi miti e false credenze che portano a dipingere con il colore blu le professioni scientifiche e tecnologiche e con il colore rosa le professioni socio-educative. Una delle conseguenze dell’utilizzo di visioni stereotipate nell’ambito delle scelte professionali è la segregazione occupazionale “orizzontale”, cioè ancora oggi vediamo una presenza statisticamente diversa di donne e uomini in determinati settori professionali. Comprendere che le scelte non hanno colori è tra i primi passi per promuovere uguaglianza di genere nel mondo lavorativo e per non “tarpare le ali” alle persone di fronte alla progettazione del loro futuro personale e professionale.

Chi è lo psicologo e che ruolo ha nella scuola

 

In base all’art. 1 della Legge n. 56/1989 che ha istituito e regolamentato questa figura professionale, “la professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito”.

Lo psicoterapeuta, invece, è uno psicologo o un medico che ha acquisito, tramite una ulteriore specializzazione post-lauream almeno quadriennale, delle tecniche specifiche utili a contrastare i disagi e la patologia della sfera psichica, emotiva, relazionale.

 

Le principali funzioni degli psicologi impegnati all’interno delle scuole possono essere individuate nelle seguenti :

  • costituire un’opportunità per favorire delle riflessioni
  • costituire un momento qualificante di educazione alla salute e prevenzione del disagio, per il benessere psicofisico degli studenti e degli insegnanti
  • promuovere negli studenti la motivazione allo studio e la fiducia in se stessi
  • costituire un momento qualificante di ascolto e di sviluppo di una relazione di aiuto
  • costituire un momento qualificante per la prevenzione del disagio evolutivo
  • collaborare con le famiglie per la prevenzione del disagio e dell’abbandono scolastico
  • rappresentare uno strumento per la formazione e la riqualificazione del personale docente
  • rappresentare uno strumento, una modalità ed un’occasione per la formazione dei genitori.

La presenza di uno Sportello di Ascolto Psicologico all’interno delle Scuole è una grande opportunità per affrontare e risolvere problematiche inerenti la crescita, oppure legate all’insuccesso, alla dispersione scolastica, al bullismo, o ancora specificatamente connesse al periodo dell’adolescenza.

Lo Sportello di Ascolto è uno spazio dedicato prioritariamente ai ragazzi, ai loro problemi, alle loro difficoltà con il mondo della scuola, la famiglia, i pari e così via, ma è anche un possibile spazio di incontro e confronto per i genitori per capire e contribuire a risolvere le difficoltà che naturalmente possono sorgere nel rapporto con un figlio che cresce.

Lo Psicologo Scolastico, dunque, è a disposizione degli studenti, dei genitori, degli insegnanti che desiderino un confronto con un esperto di relazioni e comunicazione tenuto al segreto professionale.

Il colloquio che si svolge all’interno dello Sportello d’Ascolto non ha fini terapeutici ma di counseling, per aiutare il ragazzo a individuare i problemi e le possibili soluzioni, collaborando con gli insegnanti in un’area psicopedagogia di intervento integrato.